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conservatori irriverenti fondatori del "Riformatorio!"

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STEFANO ZAGO

Un tema che è stato ampiamente discusso (non sempre a dovere) nei talk show e nei social, nonché cavallo di battaglia dei progressisti PD e M5S e che ha suscitato varie polemiche, è stato proprio il salario minimo. L’Italia è un paese nel quale non è presente ad oggi un salario minimo poiché sussiste una copertura piuttosto vasta della contrattazione collettiva del lavoro. Un sistema diverso, sul quale anche l’Europa si è espressa piuttosto a favore in quanto non ci è mai stato chiesto di introdurre un salario minimo nazionale. Tuttavia, il 14 settembre scorso, il Parlamento dell’Unione Europea ha approvato la direttiva COM(2020)0682, la nuova legislazione sui salari minimi, con 505 voti favorevoli, 92 contrari e 44 astenuti, per tutelare i lavoratori di 21 Paesi membri su 27 totali. Essendo appunto una direttiva, ogni Stato dovrà stabilire in maniera adeguata i livelli salariali in base ad un paniere di beni e servizi a prezzi reali o, in alternativa, prendere in considerazione il 60% del salario mediano lordo e il 50% del salario medio lordo, in modo da ottenere un importo da fissare come salario minimo. L’Italia non è presente tra questi 21 Paesi dell’UE ed infatti le viene proposto di continuare a promuovere, incentivare e rafforzare la copertura dei contratti collettivi, facendo così intuire che gli stipendi bassi e il lavoro irregolare derivino in realtà da una mancata attuazione di tali contratti. La sinistra (PD e M5S) e i sindacati invece continuano ad insistere con veemenza su questo argomento. Per tutta la campagna elettorale, reddito di cittadinanza e salario minimo sono stati un mantra ripetuto cercando di far leva (con un bel livello di retorica) su un determinato tipo di elettorato, sperando di ottenere maggiore consenso, inutilmente, tra i lavoratori.

Ma anche se lo applicassimo che cosa succederebbe? Innanzitutto bisognerebbe scegliere una cifra minima oraria e già questo sarebbe un problema non irrilevante. Se fosse troppo alta, le imprese non riuscirebbero a pagare regolarmente i lavoratori (anche a causa dell’enorme imposizione fiscale e contributiva sugli stipendi) e come unico effetto avremmo un incentivo al lavoro “nero”, portando con sé le conseguenze negative sul singolo dipendente, sull’intero sistema previdenziale e sulla finanza pubblica. Anche solo ipotizzando i 9 euro all’ora netti proposti da Giuseppe Conte, le aziende si troverebbero in serie difficoltà, facendo aumentare troppo i costi per una cifra complessiva di 35 miliardi di euro, costi già ad oggi elevatissimi a causa del caro energia. Mentre quindi la sinistra ha inneggiato e tornerà ad inneggiare al salario minimo, ben si guarda dal tirare fuori l’argomento produttività. Ma quale salario: il punto è la produttività Questo è il protagonista reale, la luna coperta dal dito. Cosa sarebbe la produttività? Molto semplicemente la capacità di produrre maggiori quantitativi di prodotti e servizi, sfruttando contemporaneamente il fattore lavoro e il fattore capitale, tramite l’aiuto della tecnologia e delle ricerche nel campo dell’organizzazione aziendale.

Ma cosa ostacola la produttività in Italia? Le cause sono ovviamente molteplici ma tra le principali possiamo trovare la fuga di giovani competenti verso altre nazioni maggiormente attraenti, la scarsa propensione a fare investimenti su ambiti di ricerca e sviluppo e la difficoltà di “fare business” che si rispecchia anche nella nostra terzultima posizione in UE nell’indice di libertà economica. La produttività in Italia è una parola tabù ed essa, se confrontata con i nostri competitor europei, evidenzia una stagnazione presente fin dagli anni ’90, stagnazione che è uno dei motivi principali dell’assenza di crescita dei redditi. Secondo dati OCSE la produttività italiana dal 2000 al 2017 è aumentata solo dell’1,6% (PIL reale per ora lavorata), mentre la Germania ha ottenuto più del 18% in questo lasso di tempo. Nonostante ciò, fortunatamente rimaniamo un paese piuttosto competitivo, seppur con la consapevolezza di non essere migliorati in termini di produttività rispetto agli anni ’90, dato che dovrebbe farci riflettere su cosa non si è fatto in ben 30 anni. I treni persi sono stati molti: non sono mai state fatte riforme che portassero veramente a un incremento del dato produttivo, già colpito da un sistema burocratico estremamente oppressivo e da un fisco sempre più affamato. In sintesi, il salario minimo non è e non sarà mai la soluzione per aumentare gli stipendi, anzi: adottandolo rischieremmo solo di ottenere un aumento della disoccupazione e una contrazione della domanda di lavoro. Fino ad ora si è preferito spargere bonus di vario tipo ma nessuno ha proposto un taglio contributivo serio per i meno abbienti e per le classi medie, nessuno che ha proposto riforme per aumentare la produttività e nessuno ha provato a investire in politiche attive del lavoro. Tra salario minimo, reddito di cittadinanza e bonus vari, la strada che stiamo percorrendo è un vero e proprio calvario, un calvario che il nostro prossimo governo dovrà fermare.

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