STABILE NELL'INSTABILITÀ
così è sempre stato definito il sistema italiano della “prima Repubblica”, capace di cambiare governo per ben 52 volte mantenendo però sempre una continuità politica interna ed una azione estera coerente con i governi precedenti.
Oggi quella capacità è venuta meno: le visioni del mondo di destra e sinistra sono agli antipodi: il Governo Conte II ha smantellato quello che aveva fatto con il governo Conte I, le priorità cambiano ogni anno, i governi passano da essere sovranisti ad europeisti in poco tempo e l’azione internazionale è più che mai compromessa.
Rafforzare il ruolo del governo non ha alcun senso senza una legge elettorale che limiti una volta per tutte l’assurdo multipolarismo italiano.
Il nostro sistema è il più frammentato in Europa e anche quando Pd e PDL si contendevano il governo, il bipolarismo fu solo di facciata: alle politiche del 2006, infatti, le due coalizioni erano composte da ben 14 liste differenti.
Un governo serio, stabile e libero dal partitismo può esistere solo con una maggioranza chiara ed omogenea.
Craxi, Berlusconi, Renzi: diversi tentativi di riforma istituzionale che fallirono. La politica italiana pare non gradire il cambiamento radicale alla luce del sole, preferisce vie traverse, meno chiassose e che non sconvolgano troppo, o troppo velocemente, la struttura istituzionale.
Se però i tentativi scoperti di riforma fallirono, i dati riguardanti il ricorso dei governi ai decreti leggi ed al voto di fiducia sono estremamente significativi. Gli esecutivi degli ultimi dieci anni hanno tutti una cosa in comune: la ricerca di un maggior peso ed una maggiore forza. Il continuo ricorso a strumenti che fino a ieri erano considerati di misura straordinaria, indicano come sia sempre più necessario limitare il ruolo di un parlamento instabile, procrastinatore e spesso messo in piedi con maggioranze partitiche assurde, per agevolare un’attività esecutiva più solida, capace di durare oltre l’anno e mezzo della durata media dei governi italiani e di mettersi quindi al pari dei governi europei e mondiali.
Il ricorso al voto di fiducia ha assunto, a partire dai governi del primo decennio del duemila, un ruolo differente, con un suo incremento massiccio da parte dell’esecutivo per ottenere il passaggio di disegni di legge. Questa pratica è stata adottata in media il 30% negli ultimi sei governi (Berlusconi IV 16,42%; Monti 45,13%; Letta 27,78%; Renzi 26,72%; Gentiloni 32,99%; Conte I 31,58%) e rappresenta un significativo punto di incontro con l’art. 49.3 della costituzione francese del 1958, il quale permette al primo Ministro di impegnare la responsabilità del governo di fronte all’Assemblea e di far quindi approvare una legge, economica o sociale, senza passare per il voto assembleare, salvo mozione di sfiducia presentata in 24 ore e firmata dalla maggioranza dei membri dell’Assemblea.
É noto che il voto di fiducia italiano sia di matrice differente: il governo francese non ne è soggetto all’insediamento ed in Italia nasce come strumento di garanzia e supremazia parlamentare “il governo deve avere la fiducia delle due Camere”, ma esso è diventato nel corso degli anni strumento di decisionismo politico in mano al governo, avvicinando l’approccio dell’esecutivo più al modello francese che alla concezione originariamente espressa dalla Costituzione italiana.
PER UNA REPUBBLICA STABILE OCCORRE LIMITARE LA PARTITOCRAZIA
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